Servigliano
Campo di internamento
Il campo di Servigliano si trova appena fuori il paese, lungo la via per Amandola e vicino alla stazione ferroviaria. Fu costruito durante il primo conflitto mondiale per accogliere i prigionieri di guerra austroungarici, turchi e serbi. Allora comprendeva 32 baracche di legno, ciascuna di una superficie di 300 mq e con una capienza di 125 prigionieri. Il campo era diviso in due settori ed era tutto circondato da un muro di cinta di 3 m sopra al quale era posto del filo spinato. Entrambi i settori disponevano di pozzi, infermerie, bagni e cucine. Aveva una capienza complessiva di circa 4000 prigionieri che tuttavia, durante il primo conflitto mondiale, non venne mai raggiunta. Il campo rimase in funzione fino al 1919 e alla fine della guerra fu adibito ad altri usi. Numerosi industriali marchigiani tentarono inutilmente di promuovere una sua riconversione industriale, ad esempio in uno stabilimento di ceramiche o in una fabbrica di cordami per reti da pesca. Tuttavia, intorno al 1935, una parte del campo venne smantellata per costruirvi un campo sportivo voluto dal dopolavoro comunale. Così venne eretto un muro in mattoni per delimitare le due aree e il campo ridusse la sua capacità ricettiva a 2000 unità. Verrà poi utilizzato come deposito di materiale bellico e cannoni da inviare in Spagna durante la Guerra Civile (1936-1939).
Nel gennaio 1940 fu ufficialmente riaperto per accogliere i nuovi prigionieri di guerra. Il campo era sottoposto alla giurisdizione del IX Corpo d’Armata e diretto dal colonnello Annibale Bacci. Inizialmente vi furono detenuti prigionieri greci ma, dal febbraio 1942 al settembre 1943, venne occupato sempre più dai prigionieri alleati: britannici, americani, canadesi, neozelandesi, francesi, etc. Il numero andò crescendo progressivamente fino a raggiungere nel maggio 1942 la capienza massima. Durante l’anno molti prigionieri furono trasferiti al campo di Sforzacosta per far posto ai nuovi arrivati.
La situazione nel campo rimase pressoché invariata fino al 14 settembre 1943, quando a sei giorni dall’armistizio, i prigionieri riuscirono a fuggire in massa disperdendosi nelle campagne e nei paesi vicini, dove in molti rimasero nascosti, aiutati dalla popolazione, fino al giugno del 1944. La fuga fu un evento unico in tutta la regione, e il suo successo deve essere accreditato al capitano medico Dereck Millar, che si assunse la responsabilità dell’evacuazione di fronte al comando del campo. Ecco la testimonianza di Mr James Keeith Killby, uno dei prigionieri scappati: ≪La situazione era confusa, allora decidemmo di fare un buco nel muro del campo, che si vede ancora adesso anche se è stato rifatto, e cominciammo ad uscire. Qualche soldato italiano sparò dei colpi di fucile in aria, poi nel caos venne dato a tutti l’ordine di fuggire, prigionieri e guardie. Finalmente ero libero! Ero insieme ad alcuni miei amici che erano stati catturati con me. Quasi tutti ci disperdemmo e lentamente ci dirigemmo verso Sud; alcuni rimasero subito ospiti nelle case delle famiglie italiane, ed eravamo molto sorpresi di come ci aiutavano. Era incredibile!≫ (Verducci, 2005, p.11-12).
A partire dall’ottobre 1943 il campo, nato per ospitare i prigionieri di guerra, si trasformò in un punto di raccolta per gli ebrei italiani e stranieri di tutta la provincia di Ascoli Piceno. I primi rastrellamenti procedettero con una certa difficoltà, però, a poco a poco, dei circa 110 ebrei presenti nella provincia dopo l’armistizio, quasi tutti furono arrestati. Nel gennaio del 1944 giunsero nel campo anche ebrei provenienti da Frosinone e da Teramo e, nei mesi successivi, anche 245 anglo-maltesi. Nonostante i numerosi arrivi, la struttura, che poteva ospitare fino a duemila prigionieri, risultava in gran parte inutilizzata.
Le condizioni di vita dei prigionieri erano disastrose. Non solo non erano previsti dei sussidi ma, come ricorda Carla Viterbo Bassani, allora tredicenne, non era garantito neppure un pasto adeguato: ≪La vita nel campo era dura, alcuni detenuti erano addetti alle cucine ed a turno preparavano i pasti sotto l’attenta sorveglianza dei carabinieri che sovrintendevano alle operazioni, ma il vitto era cosa davvero penosa: si trattava di fagioli e piselli marci che conservavano nei sacchi. Qualche volta, tenuto conto della scarsità del cibo, autorizzavano qualcuno di noi ad andare per le case ad elemosinare un pezzo di pane, sempre accompagnato dalle guardie≫(Verducci, 2005, p.19).
Nell’aprile del ’44, grazie a una scarsa sorveglianza, una decina di ebrei riuscirono a fuggire, mentre la maggior parte dei prigionieri, prevalentemente donne, bambini e anziani, rimasero nel campo.
La situazione cambiò quando il 3 maggio gli alleati bombardarono il campo creando una breccia nel muro di cinta e comportando la distruzione di alcune baracche. In quel momento gli ebrei presenti nel campo erano circa cinquanta. Di questi riuscirono a fuggire in diciannove mentre gli altri vennero subito catturati dai carabinieri e la sera stessa caricati su un autocarro e portati verso nord, prima a Fossoli e poi ad Auschwitz. Dieci vennero uccisi al loro arrivo nel campo di sterminio, gli altri morirono di stenti e per i maltrattamenti subiti. Solo una donna, Susanna Hauser, si salvò e venne liberata nel gennaio 1944.
Prima della liberazione a Servigliano erano ancora presenti tutti gli anglo-maltesi, gli ebrei trasferiti dal campo di Corrosoli e un gruppo di cinesi provenienti dal campo di Isola del Gran Sasso, situati entrambi in provincia di Teramo. Il 25 maggio e il 7 giugno vi furono due incursioni di partigiani effettuate dal gruppo Decio Filipponi, che consentirono agli ebrei di uscire dal campo, ma molti di loro, spaventati e spaesati, fecero ritorno dentro le mura. Gli alleati erano vicini e il 25 giugno l’intera zona venne liberata.
Il campo di concentramento di Servigliano rimase attivo anche dopo la fine della guerra. Alla fine di giugno vennero avviati dei lavori di risistemazione delle strutture interne con il fine di trasformare quello che era stato un campo di prigionia in un centro di raccolta profughi. I primi ad arrivare furono 1300 profughi istriani, giuliani e dalmati, che lasceranno Servigliano solo nel luglio 1946 per essere trasferiti nel campo profughi di Senigallia e poi in Argentina. Per far fronte ai continui arrivi all’inizio del 1947, quando si attendevano 1500 persone, fu costituito il Comitato Assistenza profughi con lo scopo di fornire aiuto morale e materiale agli abitanti del campo. Era difficile trovare un lavoro nella zona e molti, soprattutto le famiglie numerose fecero richiesta, dopo una breve permanenza di spostarsi in grandi centri urbani dove sarebbe stato più facile trovare un’occupazione. In questo campo passarono circa 900 nuclei familiari provenienti dalle zone dell’esodo.
Nel luglio 1955 gli ultimi ospiti del campo furono trasferiti e la struttura verrà abbandonata per molti anni. Le baracche destinate al corpo di guardia, che erano state costruite al di fuori della cinta muraria, esistono ancora oggi, mentre quelle destinate ai prigionieri vennero demolite negli anni Settanta, su decisione dell’Amministrazione comunale.
Nel 2001 è nata a Servigliano l’Associazione Casa della Memoria con l’obiettivo di recuperare la memoria storica delle vicende che riguardano il campo di Servigliano, raccogliendo materiale documentario e svolgendo attività divulgative e didattiche.
Bibliografia
C. Di Sante, L’internamento civile nell’Ascolano e il campo di concentramento di Servigliano (1940-1944). Documenti e testimonianze dell’internamento fascista, Istituto provinciale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, Ascoli Piceno 1998.
F. Ieranò, Baracca n.6. Il passaggio di migliaia di profughi tra il 1945 e il 1955 nell’ex campo di concentramento di Servigliano (…), Città ideale, Massa Fermana 2006.
–Una città cosmopolita. Il passaggio di migliaia di profughi tra il 1945 e il 1955 nell’ex campo di concentramento di Servigliano (…), Capodarco fermano, Fermo 2012.
L. Verducci, G. Milloza, F. Ieranò (a cura di), Il campo di Servigliano 1915-1955. La memoria di un luogo che testimonia le tragedie del Novecento, Associazione Casa della Memoria di Servigliano, Servigliano 2005.