Rinaldini (don) Giuseppe

Piobbico, 7 maggio 1914 – Piobbico, 1° maggio 2005

La vicenda di don Giuseppe Rinaldini è emblematica della “guerra ai civili” dei nazifascisti contro coloro anche solo sospettati di aiutare i partigiani e i soldati alleati sbandati. Una violenza programmata e pianificata, la cui crudeltà aumenta con l’avvicinarsi della fine, che vede la partecipazione del battaglione “Camilluccia” della Legione M “Tagliamento” ai rastrellamenti antipartigiani e alle operazioni di polizia. Rinaldini era stato ordinato sacerdote il 14 agosto 1938 ed era stato assegnato alla parrocchia di Pieve del Colle, tra Fermignano e Urbania. La canonica in posizione isolata su una collina si affaccai sulla pianura del Metauro e sui contrafforti nordorientali del monte Nerone. Un luogo che soprattutto nella primavera-estate del 1944 era diventato un punto di appoggio strategico per i distaccamenti partigiani della V Brigata Garibaldi “Pesaro” e del Distaccamento “Toscano” per le incursioni a valle con rapidi sganciamenti in direzione del Nerone e del monte Pietralata. Una situazione che con l’avvicinarsi del fronte alleato intralciava i piani tedeschi per una ritirata ordinata verso la linea Gotica essendo la via Flaminia e la linea ferroviaria Urbino-Fabriano obiettivo di sabotaggi e agguati della guerriglia partigiana. Una condizione di pericolo e di paura per le possibili rappresaglie di tedeschi e fascisti di cui Rinaldini è consapevole e che così descrive: “Paure incessanti e sorprese amare vengono causate dai tedeschi: dove passano, portano via vitelli, vaccine, maiali, pollami, uova e soprattutto vino. Paure e sorprese all’apparire di partigiani: questi, per solito, domandano pane e companatico, ma molte volte, come i tedeschi, portano via anch’essi con le armi in pugno quanto loro abbisogna, la parte del formaggio spettante al padrone, agnelli e vitelli. Per giunta vi sono bandi dappertutto, con minacce di pene severissime per chi aiuta i partigiani e allora anche la loro vista – non si sa mai, potrebbero essere spie travestite – diventa quanto mai indesiderata”. Timori che diventano realtà nella notte tra il 27 e il 28 giugno 1944 per il tradimento di Renato Ivancev, il “Triestino”, un caposquadra del Distaccamento “Toscano che conosceva il luogo e don Rinaldini. L’Ivancev guidò una trentina di tedeschi e un fascista fino alla canonica e con una scusa fece uscire il parroco che, compresa la situazione, tentò di rientrare in casa chiudendo la porta. Ne seguì una “sparatoria furibonda” e don Rinaldini, raggiunto dai colpi di mitraglia e di bombe a mano, è trascinato insanguinato e privo di sensi sul proprio letto dalla madre Olinda e dalla sorella Dolores al punto che, ritenuto morto gli venne risparmiato il colpo di grazia. Nella concitazione drammatica del momento la sorella e la madre riuscirono con grande sangue freddo a nascondere due rivoltelle e i proiettili custoditi in casa mentre fortunatamente i tedeschi, che mettono sottosopra i locali della canonica, non trovano le mappe topografiche usate da don Rinaldini per indicare le strade ai partigiani e a qualche soldato alleato sbandato. La sorella e il fratello Nino sono lasciati nella canonica mentre gli altri due fratelli, Domenico e Romano, sono portati a Cagli e rinchiusi nel palazzo Mochi con altri partigiani del Distaccamento “Toscano” e ostaggi prelevati a Fermignano sette dei quali saranno fucilati a Lancialunga. Il vescovo di Cagli Raffaele Campelli otterrà dal comando tedesco la liberazione di Domenico e Romano Rinaldini, mentre l’indomani il comandante tedesco Schrank della V Divisione alpini rimette al vescovo l’atto di morte di don Rinaldini. Don Giuseppe in realtà, sebbene ridotto in fin di vita era stato medicato dal dottor Getulio Vaselli e in stato di incoscienza condotto all’ospedale di Urbania. Subisce diversi interventi chirurgici mentre una rete di protezione è attivata da don Corredo Leonardi per tenere i tedeschi lontani dall’ospedale. All’occorrenza era stato allestito anche un nascondiglio in un sepolcro della chiesa annessa all’ospedale. A distanza di due mesi, pur non essendo più in pericolo di vita, così descrive le sue condizioni don Lorenzo Bedeschi, cappellano del CIL, entrato a Urbania liberata il 29 agosto 1944: “Quando incontro don Giuseppe all’ospedale di Urbania tutto arrotolato di bende, dissanguato, sordo, stralunato, con quattro o cinque pallottole in corpo, l’inguine maciullata da bombe a mano, pensai a uno schiacciato da una locomotiva”. Nel dopoguerra don Rinaldini è di nuovo parroco, ma nei dintorni di Piobbico, nella parrocchia di S. Donato dove conclude la sua esistenza.

Fonti: ASAPU, 01-7-71-b.134-fasc.71; Ibid. Diari di sacerdoti e religiosi 1942-44, 01-9-9-b.157-fasc.9.

Bibl.: E. Dini, Tempo di guerra. Ricordi in lontananza, Provincia di Pesaro e Urbino-Comune di Piobbico, Pesaro 1994, pp.90-98; G. Rinaldini, La mia fucilazione, Prefazione di L. Bedeschi, II edizione riveduta e corretta, Stibu, Urbania 1998; L. Pasquini-N. Re, I luoghi della memoria. Itinerari della Resistenza marchigiana, Anpi Marche-Irsmlm, Ancona, il lavoro editoriale 2007, p.183; R. Giacomini, Storia della Resistenza nelle Marche.1943-1944, affinità elettive, Ancona 2020, p.368,389-391.

(E. T.)