I campi di internamento in Italia
Durante il ventennio, il compito della polizia era quello di stroncare duramente l’azione degli antifascisti e di quanti potessero essere considerati potenziali eversivi.
Nel novembre del 1926 vennero emanate le leggi di pubblica sicurezza, nelle quali venne disciplinato il confino degli oppositori come misura sostitutiva al domicilio coatto.
Nel 1938, gli organi centrali del Ministero dell’Interno regolamentarono il sistema dell’internamento, inteso come misura restrittiva della libertà personale con la quale gli Stati hanno il potere di allontanare dalle zone di guerra alcune categorie di stranieri o di propri cittadini, relegandoli in località militarmente non importanti dove si possa esercitare agevolmente la vigilanza. L’8 Giugno 1940, a soli due giorni dall’entrata in guerra dell’Italia, un’altra circolare, la n. 442/12267, emanò le “prescrizioni per i campi di concentramento e le località di confino” dando così uno degli ultimi ritocchi alla macchina dell’internamento ormai pronta ad entrare in funzione.
Il 4 settembre del 1940 Mussolini firmò un decreto con cui vennero istituiti i primi 43 campi di internamento per cittadini di paesi nemici. In realtà in questi campi furono concentrate varie categorie di persone: i soggetti ritenuti “pericolosi nelle contingenze belliche”; gli ebrei italiani; gli stranieri sudditi di “paesi nemici”, ebrei e non, che si trovavano in Italia allo scoppio della guerra; gli zingari; ed ancora gli antifascisti schedati (condannati dal Tribunale speciale, ex confinati, ex ammoniti, ecc.), gli antifascisti arbitrariamente trattenuti a fine pena ed altri arrestati per manifestazioni sporadiche di antifascismo.
L’internamento fu una conseguenza diretta ed immediata dell’entrata in guerra dell’Italia, l’ultima misura repressiva del regime.
Così come i luoghi di confino, anche i campi d’internamento in Italia erano lontani dalle zone militari e dai porti, dalle strade importanti e dalle linee ferroviarie, dagli aeroporti e dalle fabbriche di armamenti.
L’Abruzzo-Molise e le Marche, regioni particolarmente montagnose e con disagevoli vie di comunicazione, ospitavano sul proprio territorio quasi la metà dei campi; gli altri si trovavano in Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Lucania, Calabria e nelle piccole isole di Ustica, Lipari, Ponza, Ventotene e Tremiti. Vi erano anche luoghi deputati al cosiddetto “internamento libero”, ovvero al soggiorno obbligato con una notevole limitazione della libertà personale, che prevedeva la proibizione di ogni contatto con gli abitanti del luogo e l’obbligo di presentarsi giornalmente alla stazione di polizia o dei carabinieri.
Dall’ottobre 1943 all’aprile 1945 i nazisti, in collaborazione con la polizia della Repubblica Sociale Italiana di Salò, istituirono e gestirono, nell’Italia da loro controllata, tre campi di smistamento rispettivamente a Borgo San Dalmazo, Fossoli e Bolzano. Da questi campi gli italiani rastrellati ed arrestati a vario titolo venivano poi avviati ai Lager veri e propri, disseminati in Europa.
Gli edifici adibiti a ospitare gli internati erano monasteri, ville requisite, fattorie, fabbriche dimesse, scuole, baracche, in un caso addirittura un cinema (Isernia) e un ex mattatoio (Manfredonia). Molti edifici presentavano una serie di problemi: freddo e umidità, mura pericolanti, debole illuminazione; a tutto ciò si aggiungeva il sovraffollamento, il vitto insufficiente e la presenza di cimici, pidocchi e altri animali infestanti.
Il ritmo delle giornate nei campi, come in ogni luogo di detenzione, era scandito da quanto previsto nel regolamento: gli appelli, il pranzo, la cena, l’oscuramento serale.
Gli “internati liberi”, invece, avevano l’obbligo di presentarsi due volte al giorno ai locali carabinieri; essi inoltre non potevano oltrepassare il perimetro loro assegnato nell’ambito del territorio comunale e non potevano avere rapporti, se non quelli minimi indispensabili, con la popolazione locale.
Le “prescrizioni”, previste per tutti gli internati dal decreto di internamento (molto simili a quelle in vigore nelle colonie di confino) erano numerosissime: era proibito occuparsi di politica, leggere senza autorizzazione pubblicazioni estere, possedere apparecchi radio, ecc. La corrispondenza con i familiari era sottoposta a censura, mentre per scrivere ad altre persone occorreva una particolare autorizzazione.
Non era previsto, invece, l’obbligo di lavorare e, a chi dichiarava di non avere mezzi per il proprio mantenimento, il governo versava un sussidio che, per gli internati nei comuni, era integrato da una “indennità di alloggio”. Il sussidio governativo (inizialmente di Lire 6,50 al giorno), nonostante i successivi aumenti che cercavano di compensare la svalutazione della lira, non consentiva di far fronte al reale costo della vita, ma era appena sufficiente a garantire una alimentazione di sopravvivenza.
Il 25 Luglio 1943 la caduta di Mussolini suscitò tra gli internati grandi speranze sulla fine della guerra e sulla loro rapida liberazione, ma nell’immediato nulla sembrò cambiare. Solo il 10 Settembre, due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, venne revocato il provvedimento d’internamento. Ma già dall’8 settembre numerosi prigionieri avevano abbandonato di loro iniziativa i campi, senza nessun impedimento da parte delle guardie fasciste, allo sbando subito dopo l’annuncio dell’armistizio.