Sforzacosta

Campo di internamento

A Sforzacosta, frazione del Comune di Macerata, un vecchio opificio fu trasformato nel 1940 in un campo di internamento per prigionieri di guerra inglesi. Uno di questi era Raymond Ellis, che nelle sue memorie ci racconta molti particolari delle condizioni di vita nel campo: “Il campo di concentramento 53 era tutto fuorché accogliente. Era un complesso di quattro o cinque grandi magazzini: edifici alti, di mattoni, privi di finestre, col pavimento di cemento. La superficie interna di quegli squallidi edifici era interamente occupata da castelli di legno a tre piani, disposti in lunghe file, talmente ravvicinate che lo spazio tra l’una e l’altra non era tale da consentire il passaggio di due uomini affiancati” (Ellis 2001, p.31). Il perimetro del campo era cinto da un alto reticolato, davanti al quale correva un filo metallico collegato alla spoletta di una mina. I prigionieri venivano fin da subito avvertiti che le sentinelle avevano l’ordine di sparare a chiunque tentasse di oltrepassare quel filo. La situazione igienico-sanitaria era davvero drammatica: sovraffollamento, mancanza di riscaldamento, carenza alimentare, malattie. Era permesso muoversi con una certa libertà all’interno dello spiazzo polveroso dove veniva effettuato l’appello. Ellis ricorda che poche erano le attività da fare: “In quel periodo circolavano pochi libri nel campo; a dire il vero non c’era nulla lì con cui far passare il tempo, ma più tardi alcuni di noi si ingegnarono a fabbricare carte da gioco e perfino giochi da tavolo, come il Ludo. (…) Insomma, passavamo la maggior parte del tempo chiacchierando” (Ellis 2001, p.33-34).

Con la confusione di eventi che si succedettero a partire dall’8 settembre, i migliaia di prigionieri alleati, rinchiusi a Sforzacosta, fecero i conti con la nuova realtà della fuga. Quelli che non riuscirono a fuggire passarono sotto il comando dei tedeschi che, preso possesso del campo, concentrarono in questo luogo tutti gli internati presenti nelle strutture della provincia. I primi ad arrivare furono i 58 ebrei di Urbisaglia, poi le 19 internate di Petriolo e le 50 internate di Pollenza. Dopo pochi mesi gli internati arrivarono ad essere più di 150. Alla fine di novembre alcuni prigionieri furono sottoposti ad internamento “libero” e trasferiti nei comuni di Caldarola, Pollenza, Urbisaglia, Petriolo, Corridonia, Tolentino e Mogliano. Nel frattempo erano confluiti a Sforzacosta i materiali provenienti dagli altri campi della provincia, ormai dismessi, come coperte, cuscini, materassi e lenzuola. Però nel febbraio 1944, probabilmente per l’avvicinarsi del fronte, il campo cominciò ad essere smantellato, il materiale rimasto fu inviato al campo di Fossoli e i prigionieri furono lì deportati con due trasferimenti successivi.

Il campo di Sforzacosta fu riattivato verso la fine di aprile del 1944 per l’internamento di molti giovani renitenti alla leva e antifascisti rastrellati dalle SS nella provincia, in particolare a Tolentino. Questi ultimi furono selezionati e divisi in tre gruppi: abili per i lavori in Germania, abili per i lavori in Italia e quelli- vi rientrarono in pochissimi- inabili esonerati da qualsiasi lavoro. Quelli abili al lavoro furono inviati prima al campo di Suzzara e poi nei lager nazisti, da dove molti di essi non tornarono più. Il 17 maggio 1944, il campo fu bombardato dagli aerei angloamericani: il fatto consentì a molti di fuggire, ma altri vi trovarono la morte. Subito dopo l’incursione aerea le SS organizzarono una vasta azione di rastrellamento e riuscirono a concentrare di nuovo qualche centinaio di uomini, ma ormai il fronte si stava avvicinando e nel mese di giugno le guardie tedesche fuggirono verso nord. Così, a poco a poco, nei giorni precedenti alla Liberazione, il numero dei presenti nel campo cominciò ad assottigliarsi sempre più. A ricordarlo il tipografo Mario Marucci, uno degli ultimi a fuggire: “Le fughe si verificavano a ritmo sempre più intenso. Eravamo rimasti uno sparuto gruppo. Bastò un significativo sguardo del fascista di guardia, compiacente quanto timoroso di ciò che poteva accadergli dopo l’arrivo imminente degli alleati e anch’io mi ritrovai solo e libero sulla strada di casa, verso la libertà” (A.N.P.I. 2003, p.123).

Tuttavia neppure lo sgombero del campo di Sforzacosta fu del tutto indolore, infatti quando i tedeschi si ritirarono, portarono con loro alcuni degli internati che, trasformandosi in un ingombro, furono eliminati lungo il tragitto. Sette di loro furono uccisi a scopo terroristico il 29 giugno a Staffolo, in quello che viene ricordato come “eccidio della Val Musone”.

Dopo la guerra l’area in cui sorgeva il campo fu acquistata da un privato. Così nelle baracche, al posto di guardie e prigionieri, arrivarono gli operai di una fabbrica di scarpe, che rimase attiva fino al 1987. Oggi, negli stessi capannoni, un ristorante e una sala giochi.

Bibliografia
R. Cruciani (a cura di), E vennero… 50 anni di libertà (1943-1993). Campi di concentramento, prigionieri di guerra, internamento libero nella Marche 1940-1945, Cooperativa Artivisive, Macerata 1993.
R. Ellis, Al di là della collina. Memorie di un soldato inglese prigioniero nelle Marche, Affinità elettive, Ancona 2001.
B. Bolognesi, Diari di un deportato (25 luglio 1943-26 luglio 1945), Affinità elettive, Ancona 2004.
R. Giacomini, Ribelli e partigiani. La Resistenza nelle Marche 1943-1944, Affinità elettive, Ancona 2008.
A.N.P.I, Tolentino e la Resistenza nel maceratese, Macerata 2003.
www.uniurb.it/giornalismo/lavori2010/battaglia/
http://www.uniurb.it/giornalismo/finecorso_2008/ancona_katia/index_katia.html