Urbisaglia
Campo di internamento
Aperto il 1° giugno 1940, il campo di internamento di Urbisaglia fu uno dei primi campi del ministero dell’Interno a entrare in funzione. Venne allestito nella villa dei principi Giustiniani-Bandini, all’Abbadia di Fiastra, che era già stata utilizzata durante la prima guerra mondiale per contenere i prigionieri austro-ungarici. Il campo era circondato da un grande muro di cinta e i prigionieri erano sorvegliati da alcuni carabinieri che alloggiavano all’interno della villa.
Già alla fine di luglio, gli internati erano circa un centinaio. La composizione del campo non fu mai omogenea, sebbene inizialmente vi fosse una prevalenza di ebrei, italiani e stranieri. Tra di essi c’erano anche Raffaele Cantoni, che nel dopoguerra sarebbe diventato presidente dell’Unione delle comunità israelitiche italiane e il dottor Paul Pollak, di nazionalità austriaca, che provvide al servizio medico all’interno del campo. Come ricorda Pollak nelle sue memorie, scritte dopo la fine della guerra e rilasciata al Centro documentazione ebraica contemporanea di Milano: ≪Nel 1941 la popolazione aumentò per l’arrivo di un gruppo di cristiani sloveni della zona di Gorizia (…). Nel 1942 giunse un forte numero di sloveni della regione di Lubiana che rimasero fino allo scioglimento del campo≫ (Cruciani 1993, p.29).
Nei primi due anni di attività il campo offrì condizioni di vita tollerabili: ≪Il clima era il migliore che si potesse desiderare. In estate era obbligatorio il riposo dopo il pranzo e si potevano chiudere le imposte per oscurare le stanze; d’inverno si ebbe, nei limiti del possibile, anche il riscaldamento: i locali di soggiorno e l’infermeria erano discretamente calde, ed anche in altre stanze si potevano accendere i camini; nella stagione fredda venivano distribuite fino a tre coperte, in modo che nessuno soffrì il freddo≫ (Cruciani 1993, p.29).
Gli internati avevano molte restrizioni: non potevano avere documenti personali perché ritirati, strumenti eapparecchi radio, non potevano eseguire lavori retribuiti, se non autorizzati. Tuttavia, avevano possibilità di movimento all’interno dell’ampio parco della villa, potevano trascorrere le giornate aiutando gli agricoltori nei lavori dei campi e potevano ricevere visite. Gli ebrei ebbero anche a disposizione una stanza per allestire una sinagoga e, nel corso del tempo, fu creata una biblioteca e vennero organizzati corsi di lingue per tutti gli internati. Pollak racconta come tutte queste attività fossero necessarie per tenere vivi la mente e lo spirito: ≪Da un lato per il bisogno, d’altra parte anche perché ad ogni persona di buon senso fu presto chiaro che non ci può essere in un campo nulla di più dannoso che l’apatia, si cominciò subito a tenere dei corsi di lingua italiana e di inglese. Un professore di scuola media impartiva lezioni in tutte le materie di sua competenza. Io stesso ho tenuto regolarmente conferenze su argomenti di medicina. Con ristretti mezzi si fondò una biblioteca, nella quale si potevano avere a prestito e gratuitamente libri adatti, più o meno, ad ogni gusto. Degli internati dotati musicalmente formarono una piccola orchestra, composta solo di fisarmonica e violino, che riuscì magistralmente a far superare molte ore tristi. Sovente si combinavano dei trattenimenti serali e tornei di scacchi e campionati di bocce≫(Cruciani 1993, p.33).
Tuttavia negli anni successivi il vitto e le condizioni igieniche diventarono poco soddisfacenti, si verificarono problemi di sovraffollamento e già nell’inverno del ’42-’43 ci furono frequenti casi di malattie da denutrizione. Dopo le proteste degli internati, la situazione migliorò leggermente: fu istituita un’infermeria e una camera di sicurezza per i prigionieri che non si attenevano alle regole del campo.
Durante il loro soggiorno, alcuni internati hanno lasciato sulle pareti delle stanze dei disegni, tra cui una nave, un paesaggio, una ragazza e lo stemma della Polonia con scritto “W LA POLONIA LIBERA”. Nell’ottobre 1991 l’Addetto Stampa dell’Ambasciata d’Israele, il Sig. Raphael Gamzou, ha visitato le varie stanze del campo proprio per ammirarli.
Gli internati avevano diritto di spedire ogni settimana una lettera ed una cartolina. Sebbene avessero un numero di righe limitato da rispettare, la disposizione non venne mai osservata; e non si verificò mai alcun incidente per la censura. Non vennero mai inflitte delle vere e proprie punizioni e nel caso di piccole infrazioni disciplinari ci si limitava a punizioni simboliche.
Dopo l’8 settembre 1943, molti internati scapparono e qualche giorno dopo il Direttore si assunse la responsabilità di aprire le porte del campo per far fuggire gli internati ancora presenti nella villa. Tuttavia, essendo senza soldi, senza documenti e, nella maggior parte, non parlando bene l’italiano, il piano era destinato a naufragare. In pochi tentarono la fortuna, nascondendosi o fuggendo; la maggior parte tornarono nel campo dopo pochi giorni, convinti anche da una disposizione del questore di Macerata, che intimava il rientro garantendo, tuttavia, che gli internati civili non avrebbero dovuto temere nulla. Era il 30 settembre 1943 quando dei camions, condotti da un ufficiale fascista italiano e scortati da soldati tedeschi, entrarono nel campo di Urbisaglia. Gli internati presenti furono trasferiti nel campo per prigionieri di guerra a Sforzacosta, che fungeva ora da centro di raccolta per i civili rastrellati nella zona e destinati alla deportazione in Germania. Dopo un breve passaggio al campo di concentramenti di Pollenza e al campo di Fossoli, ai primi di dicembre finirono su un treno, con centinaia di persone, diretto ad Auschwitz. ≪Del gruppo di Urbisaglia, circa cento persone – conclude il memoriale il dott. Pollak -, io sono l’unico superstite≫ (Giacomini 2008, p.181).
Bibliografia
R. Cruciani (a cura di), E vennero… 50 anni di libertà (1943-1993). Campi di concentramento, prigionieri di guerra, internamento libero nella Marche 1940-1945, Cooperativa Artivisive, Macerata 1993.
R. Giacomini, Ribelli e partigiani. La Resistenza nelle Marche 1943-1944, Affinità elettive, Ancona 2008.
C. S. Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino 2004.