Pian di Pieca

A Pian di Pieca, piccola frazione di San Ginesio, il 17 giugno 1944 si consumò un tragico episodio di violenza che rimase per sempre impresso nella memoria collettiva.

Il 16 giugno il Comando del Gruppo Vera era venuto a conoscenza del fatto che, in una casa colonica sulla strada provinciale di Macerata, fosse dislocato un gruppo di fascisti incaricati di spionaggio. Fu inviata allora una squadra di partigiani in una casa vicina con lo scopo di vigilare e sorprendere le spie, oltre che sorvegliare la strada in quel tratto in cui le staffette naziste mantenevano il collegamento fra Ascoli e Macerata. La squadra era costituita da Tonino Bertoni, Cosimo Montaldo e Antonio D’Arduin. A guidarli il partigiano Mario Mogliani.

Per tenere sotto controllo la situazione, la notte fra il 16 e il 17 la trascorsero all’aperto e sotto la pioggia. Sul far dell’alba, quando il passaggio dei tedeschi in ritirata era cessato, Mogliani con D’Arduin e Montaldo si appostarono in un campo di grano dominante la curva dove era la casa dei fascisti, mentre Bertoni sulla parte opposta della strada fungeva da sentinella. Ad un certo punto quest’ultimo segnalò l’avanzare di una motocicletta con un ufficiale tedesco e Mogliani uscì dal nascondiglio intimando l’alt. L’ufficiale invece che fermarsi continuò a tutta velocità. Allora Mogliani lo raggiunse con una scarica di mitra e l’uomo cadde a terra gravemente ferito. Casualmente sopraggiunse un’ambulanza della Croce Rossa che caricò immediatamente il tedesco per portarlo all’ospedale di Sarnano. Ma, passando per Pian di Pieca, dove si trovava un accampamento di tedeschi in ritirata, quelli dell’ambulanza resero noto il fatto, innescando la reazione dei nazisti: in un batter d’occhio furono presi come ostaggi numerosi civili dai villaggi di Colle, Morichella e dal gruppo di case della parrocchia di Pian di Pieca. Fra di essi anche il curato, don Sesto Mosca. Contemporaneamente un gruppo di soldati partì alla ricerca dei partigiani che avevano compiuto l’atto.

Nel frattempo la squadra di Mogliani stava risalendo verso San Ginesio, immaginando che la rappresaglia tedesca non avrebbe tardato ad arrivare. Raggiunta una casa colonica proprio sotto le mura ginesine, vennero invitati dentro dalla famiglia. Alla donna che li spronava a desistere dalla loro attività contro i tedeschi e i fascisti, Mogliani rispondeva: «Noi abbiamo sentito una cosa sola: che dobbiamo combattere contro i fascisti e i tedeschi per un sentimento di amor proprio e per difendere la nostra libertà. […] Quale altro scopo può avere la nostra giovinezza nella lotta faccia a faccia con la morte? E che cosa direbbero domani di noi se ce ne rimanessimo nascosti nelle nostre case mentre i tedeschi predano la nostra terra e vogliono tenerci sotto la loro barbarie e mentre sono con essi ancora dei rinnegati indegni del nome d’Italiani? Noi vogliamo essere di esempio. E se il nostro ardimento ci costerà la vita essa non sarà perduta inutilmente» (Le nostre vittime del naifascismo, 1945 p.52-3).
Dopo essersi rifocillati i partigiani si riposarono un po’, ma non era passata nemmeno un’ora che nei dintorni si udì sparare e i quattro si svegliarono. Usciti fuori, videro nella valle varie pattuglie di tedeschi che avanzavano verso di loro. A quel punto preferirono dividersi.

Montaldo si nascose in un canneto mentre Bertoni, seppur sconsigliato da Mogliani, decise di avviarsi verso San Ginesio. Fu subito avvistato da una pattuglia che gli fece segno con il mitra di fermarsi. Ma con abilità riuscì a salire fino alla strada delle Mura e si occultò in paese. Una volta entrato a San Ginesio avvisò i paesani che stavano arrivando i tedeschi. Poi raggiunse la località di Fiolce dove si trovava la sua abitazione. D’Arduin e Mogliani avevano invece ritenuto più opportuno celarsi in un fossato a pochi metri dalla casa dove si erano fermati. Proprio lì furono visti e catturati dai tedeschi. Con le mani legate dietro la schiena furono condotti nella piazza principale di San Ginesio. Gi altri due si salvarono. Montaldo raccontò in seguito che dal suo nascondiglio sentiva l’odore delle sigarette che i tedeschi fumavano, tanto gli passarono vicino.

I due prigionieri furono condotti nella piazza Alberico Gentili. Erano circa le due del pomeriggio. Passavano di lì Fernando Ferroni e un compagno. Anch’essi furono presi come ostaggi e divennero testimoni oculari di quanto accadde in seguito. Mogliani fu fatto denudare fino a rimanere in mutande e maglietta. Tutti gli ostaggi radunati fino a quel momento furono fatti schierare tra la bottega Falchi e il Monumento ad Alberico Gentili. Il maggiore della spedizione intimò che sarebbero stati tutti fucilati perché San Ginesio era un paese di ribelli e doveva essere punito. A detta di Ferroni: «Era un vero silenzio di morte fra noi poiché conoscevamo la ferocia dei tedeschi. Nessuno sperava più di salvarsi. Guardavo Mario, pallido e dignitoso, sereno e calmo, come se fosse già trapassato. Aveva le mani gonfie per i lacci troppo stretti ai polsi. Silenzioso e fermo come la statua di Alberico Gentili che gli era di fronte. E grondava da tutte le parti del suo giovane corpo, bello e sofferente» (Le nostre vittime del naifascismo, 1945 p.55).

Il comandante tedesco che attendeva notizie dall’ospedale di Sarnano sulle condizioni del militare ferito, dichiarò che alle 16 del pomeriggio sarebbero stati fucilati gli ostaggi e alle 18 impiccati i due prigionieri. Nel frattempo un altro maresciallo tedesco, vissuto a San Ginesio per diverso tempo e affezionatosi alla cittadinanza per il buon trattamento ricevuto, cominciò a perorare la causa degli ostaggi difendendoli dall’accusa di ribelli. Alla fine il maggiore si decise a liberarli. Contribuì alla decisione anche la notizia dall’ospedale che il ferito non correva pericolo di morte.

A quel punto la Compagnia ripartì con i due prigionieri alla volta di Pian di Pieca. Alla confluenza delle vie di Macerata, Amandola e Tolentino si trovava lo spaccio della famiglia Mancini. Sopra c’era la loro casa con un balcone sporgente dal primo piano. Qui furono legati i primi due capestri. Erano le 18 esatte quando Mogliani e D’Arduin persero la vita. Ci fu anche un terzo impiccato: un certo Benedetto Tardella che i nazisti avevano fermato a Passo S. Ginesio mentre tornava dall’aver preso il grano all’ammasso. Lo avevano creduto un partigiano e senza alcuna inchiesta lo impiccarono insieme agli altri due. Un testimone raccontò che il giovane urlava a squarciagola la sua innocenza mentre gli mettevano la corda al collo e le urla si protrassero finchè la voce non fu soffocata dal nodo scorsoio.

I tre cadaveri rimasero penzolanti sulla terrazza dal sabato sera fino al mercoledì mattina. I tedeschi in ritirata si divertivano a sparare colpi di rivoltella sulle povere vittime.
Il 21 giugno il capitano Casà e l’Ing. Verdecchia si recarono allo spaccio Mancini e insieme spiccarono i tre cadaveri, li avvolsero in bianchi lenzuoli e li deposero nell’attiguo ufficio postale. Il giorno successivo vennero finalmente riportati a San Ginesio (Le nostre vittime del nazifascismo, 1945 p.61).

Bibliografia
R. Giacomini, Ribelli e partigiani. La Resistenza nelle Marche 1943-1944, Affinità elettive, Ancona 2008.
Gruppo patrioti “Vera” San Ginesio, Le nostre vittime del nazi-fascismo, Tipografia Filelfo, Tolentino 1945.
G. Mari, Guerriglia sull’Appennino. La Resistenza nelle Marche, Argalia, Urbino 1965.