Piandimeleto
La memoria della guerra partigiana a Piandimeleto si identifica tutt’oggi con l’episodio del 28 aprile 1944, quando il II Battaglione della Brigata Pesaro, unito al Distaccamento Picelli e con la collaborazione del tenente Oscar Ubaldi (Veltro), sferrarono un duro attacco al presidio fascista della città.
Insieme a Sassocorvaro e Macerata Feltria, Piandimeleto costituiva nell’urbinate uno dei centri base dei tedeschi e dei fascisti, da dove muovevano le forze lavoro adoperate per la costruzione delle fortificazioni della Linea Gotica e dove era alloggiato anche un cospicuo gruppo di soldati. La direzione generale dei lavori per il settore Montecchio-Sestino si trovava a Macerata Feltria, ma Piandimeleto era il centro più prossimo ai valichi.
Il 10 marzo era giunto in paese un grosso contingente di soldati G.N.R., comandato dal capitano D’Ortona, amico di Farinacci. Circa 240 uomini vennero accasermati nel castello dei Conti Oliva, che era anche sede comunale. Nei giorni seguenti una settantina di questi furono mandati a Cavoleto per lavorare alla costruzione di opere difensive: bunker, fortini, strade militari, postazioni di vedetta e di artiglieria.
Il tenente Oscar Ubaldi, reduce dalla Russia, dove era stato decorato dal governo italiano e tedesco, fu uno dei principali organizzatori e promotori dell’azione partigiana: «Fu appunto mentre ero a Piandimeleto che ebbi i primi contatti coi partigiani ad Urbino prima e poi nelle zone di Cerqueto Bono, Montinuovo e Paganico. Anche qui erano cominciate lungo il Foglia le fortificazioni. Non ci voleva molto a capire quanto queste fossero pericolose per tutta la zona, con il rischio di una stagnazione del fronte. D’altra parte a Piandimeleto si andavano creando condizioni favorevoli per un’azione dimostrativa di sabotaggio, sia per la disponibilità della popolazione a collaborare, sia per la presenza di un nucleo di giovani pronti ad arruolarsi nei partigiani, ed infine per un certo grado di disponibilità riscontrato in alcuni militari repubblichini» (Severi, 1997 p.103-104).
Cominciò così a prendere corpo l’idea di un attacco partigiano al presidio di Piandimeleto. Paioncini e Arturo Monaldi cominciarono a raccogliere informazioni sull’organizzazione interna della caserma, altri facevano da staffette con le formazioni partigiane. Le prime riunioni furono fatte nella bottega di Monaldi: «Oscar Ubaldi venne nella mia bottega con Renato Chiaribini. Siccome io potevo entrare in caserma perchè facevo il fabbro e gli ferravo i cavalli, lui mi incaricò di osservare com’era messo, le loro abitudini. Con Oscar ci vedevamo dentro la mia bottega; un giorno siamo andati in un posto per parlare con i partigiani e gli abbiamo spiegato questa faccenda della caserma; un’altra volta sono andato da solo a incontrare uno, l’ho accompagnato in paese e gli ho fatto vedere com’era: dove si passava, dov’erano l’ufficio postale, la banca, i carabinieri, la caserma, dove abitava il comandante. Dopo ho saputo che questo era il comandante partigiano» (Severi, 1997 p.103-104). Si trattava del comandante del Picelli, Orfeo Porfiri, nome di battaglia Paolo.
Il progetto era quello di un’azione dimostrativa che arginasse la tracotanza dei fascisti. Si insisteva soprattutto sull’esigenza di evitare ogni spargimento di sangue per scongiurare rappresaglie.
Verso le 14 del 28 aprile una dozzina di partigiani in borghese entrarono nella cittadina e si dislocarono secondo un programma stabilito. In contemporanea venticinque uomini del Picelli al comando del ten. Paolo, da una casa colonica posta sulla collina, scesero verso un fabbricato che il comando repubblichino da tempo aveva adibito a scuderia per cavalli e a rimessa di grandi carri a quattro ruote. Giunti alla scuderia i partigiani la circondarono, fecero prigioniero il personale di guardia e attaccati alcuni cavalli ai carri, li lanciarono al galoppo verso l’abitato, portandosi sotto la caserma. Due squadre avevano intanto bloccato la strada provinciale a nord e a sud, mentre una parte dei partigiani in borghese si dirigeva alla casa del comandante della compagnia, che venne facilmente prelevato: «Per un primo tratto il capitano fascista aveva camminato dietro il carro, ma aveva solo i calzini quindi lo facemmo salire perchè non ce la faceva; dopo 4-5 km tentò la fuga nel bosco, ma un paio di partigiani lo riacciuffarono subito» (Severi, 1997 p.108). Venne poi processato dal comando di Brigata e condannato a morte. Rimase coerente alla sua scelta visto che alla richiesta di non combattere più contro i partigiani, rispose di non potervi aderire, ben sapendo che l’alternativa era la fucilazione.
Contemporaneamente venivano portate a compimento altre azioni: il disarmo dei carabinieri, il prelievo dei fondi alla Cassa di Risparmio e l’apertura del silos: «La gente accorse con tutto quello che aveva, pentole, cesti, perfino carriole; ricordo due donne che tentavano di portar via il grano in una di quelle ceste per coprire i pulcini: il grano se ne andava attraverso le maglie dei venchi» (Severi, 1997 p.108).
L’azione contro la caserma fu fulminea: invasa di sorpresa senza che ai difensori fosse possibile minimamente tentare la difesa, decine di soldati presenti vennero disarmati e costretti a trasportare sui carri i materiali prelevati dai partigiani. Durò mezz’ora ma fruttò un grande bottino di munizioni e di armi tra cui centinaia di fucili, due mitragliatrici, mitragliatori e pistole (Mari, 1965 p.206-7). Ebbe grande risonanza e costituì l’inizio dello sfascio psicologico e militare della G.N.R. e della T.O.D.T. in tutta la zona. I lavori di fortificazione furono praticamente sospesi e diverse decine di militari passarono tra le fila partigiane, altri disertarono provocando lo scioglimento dei presidi che erano stati allestiti nella zona (Severi 1997).
Bibliografia
G. Mari, Guerriglia sull’Appennino. La Resistenza nelle Marche, Argalia, Urbino 1965
S. Severi, Il Montefeltro tra guerra e liberazione 1940-1945, Società di Studi Storici per il Montefeltro, San Leo 1997.